L’importanza dell’Indice glicemico in una corretta alimentazione

Saper misurare l’indice glicemico (IG) di un pasto è importante per preparare pietanze “equilibrate” e  mantenere la glicemia sotto controllo. Ciò è particolarmente importante per i diabetici e per le persone obese. Lo è anche per le persone in sovrappeso e per chi pratica sport agonistico. Servirsi di questa conoscenza significa, per la maggior parte delle persone, dotarsi di  uno strumento in più per adottare abitudini alimentari più corrette e, per alcuni, ottenere un dimagrimento più stabile e duraturo.
L’indice glicemico (IG) è un numero, compreso tra 0 a 100, che indica come aumenta il livello di zucchero nel sangue (glicemia) dopo aver mangiato un determinato alimento in confronto a quanto si alzerebbe lo stesso valore dopo avere ingerito una uguale quantità di carboidrati sotto forma di zucchero (glucosio) o di pane bianco, presi entrambi come riferimento. Più è alto questo valore più veloce sarà l’innalzamento della glicemia post-prandiale e più alto sarà il rilascio di insulina da parte dell’organismo. Uno dei “segreti” della nostra salute, risiede proprio nella conoscenza di quali alimenti e meccanismi vanno a modificare l’aumento rapido dello zucchero nel sangue e la consequenziale risposta insulinica da parte del pancreas.

Come è noto, l’insulina, ha lo scopo di far assorbire il glucosio nelle cellule dei tessuti e dal momento in cui queste non riescono più a “smaltirlo”, per un eccesso di zuccheri, attivano quei processi metabolici di conversione dei glucidi in grassi che determinano la formazione del tessuto adiposo.
Questo fenomeno è influenzato in modo particolare da alimenti ad alto contenuto di carboidrati, sia semplici sia complessi, mentre  i cibi ad alto contenuto di grassi o di proteine hanno un effetto non immediato sulla glicemia, ma tardivo e prolungato.
I carboidrati, quindi, sono il vero problema, ma non sono tutti uguali.
Prima del 1981, anno in cui il canadese David Jenkins, per primo, sviluppò il concetto di IG, si riteneva che gli zuccheri semplici, come glucosio e fruttosio, venissero assorbiti più rapidamente di qualsiasi altro zucchero a livello intestinale e poiché ciò comportava un rapido incremento della glicemia se ne sconsigliava l’assunzione. Di contro, si sosteneva che gli amidi (zuccheri complessi) venissero digeriti e assorbiti più lentamente e che ciò causasse innalzamenti della glicemia molto più modesti.

Oggi, dopo numerose ricerche, sappiamo che così non è. Anzi, alcuni carboidrati complessi come quelli presenti nelle patate, riso o pizza hanno un IG anche molto più alto di quello delle zollette di zucchero (guarda tabella in basso)[1]. Quindi se ne consiglia un consumo moderato a tutti e in particolare modo ai soggetti diabetici e obesi che hanno spesso problemi di iperinsulinemia e che a causa di ciò tendono a peggiorare ancora di più la risposta insulinemica.

Ma cosa determina la variabilità dell’IG degli alimenti? Perché alcuni cibi tendono a far ingrassare più di altri?
Per dare una risposta a ciò è necessario dare un accenno ai rapporti tra le due componenti principali dell’amido: l’amilosio e l’amilopectina. Perchè è, prima di tutto, dalla maggiore presenza di una componente rispetto all’altra che dipende la natura chimico-fisica degli alimenti amilacei e quindi l’IG.
Quando un alimento amidaceo è sottoposto a cottura la struttura dell’amido si modifica. I granuli si idratano, si gonfiano sempre più, e man mano che procede il riscaldamento una frazione di amilopectina passa nella soluzione acquosa. Col procedere della cottura anche una frazione di amilosio passa nella soluzione e l’amido complessivamente arriva a formare una sospensione, più o meno viscosa, determinando quel fenomeno che prende il nome di “gelatinizzazione dell’amido”. Minore è il contenuto percentuale di amilosio maggiore è la gelatinizzazione. Più spinta è la gelatinizzazione più alto è l’IG [3]. Durante questo processo il granulo di amido si trasforma strutturalmente, consentendo, con un progressivo rigonfiamento, una facilitazione all’ingresso nella sua struttura, degli enzimi deputati alla sua digestione (amilasi). Più semplice è l’accesso di questi enzimi all’amido, più veloce è l’idrolisi che porta alla trasformazione dell’amido stesso in glucosio e maggiore è la tendenza all’aumento della glicemia e quindi dell’IG dell’alimento.

Gli amidi dei cereali, contengono in genere tra il 15 e il 28% di amilosio e il 72 e 85% di amilopectina: il frumento il 25% di amilosio e il 75% di amilopectina, il riso il 18,5% e 81,5% [2]. Gli amidi dei legumi hanno un contenuto di amilosio molto più alto (dal 33 al 66%). Quello dei tuberi (fecole), per esempio quello della patata, al contrario, hanno un tenore di amilosio molto più basso (tra il 17 e il 22%). Mentre quello di alcuni tipi di mais (mais ceroso) contengono addirittura meno dell’1% di amilosio e più del 99% di amilopectina.

Maggiore è il rapporto amilosio/amilopectina più alto è l’IG. In questo modo è facile capire perché i legumi, che hanno una percentuale di amilosio alta, hanno un più basso IG rispetto alle patate, che hanno minore contenuto di amilosio.
Esistono tuttavia anche altri fattori chimico-fisici che possono modificare l’IG,  l’idratazione e il calore, normalmente, l’aumentano. La carota, ad esempio, ha un IG abbastanza basso quando è cruda. Invece, una volta cotta, il suo IG passa da 35 a 85 per via della gelatinizzazione del suo amido. Altro esempio è la pasta di semola di grano duro, che troviamo comunemente nelle confezioni. Passa da un valore di IG pari a 38, con una cottura al dente, a un valore di 61 se la cottura è prolungata e il processo di gelatinizzazione subisce un’accelerazione. Inoltre, per via della pastificazione (particolare processo industriale) la pasta confezionata ha un IG inferiore a quella fresca e fatta in casa con la comune farina bianca di grano tenero. Questo spiega perché, talora, è meglio consumare pasta piuttosto che pane bianco, fatto con farina bianca di tipo 0 o 00, che ha un IG pari a 100 [4]. Numerosi altri processi industriali possono modificare, di molto, l’indice glicemico. Il chicco di mais, per esempio, se bollito ha in IG di 73. Ma il suo valore aumenta di parecchio se viene fatto esplodere per la produzione dei pop-corn (78) o se viene lavorato per la produzione dei corn flakes (115).

Anche il contenuto di fibra e proteine può condizionare di molto l’IG di un alimento. I legumi, per esempio, hanno un più alto contenuto di fibra (soprattutto solubile) e di proteine (quasi doppio) rispetto ai cereali. Per questo motivo, l’accesso ai glucidi da parte delle amilasi è ostacolato da una maggiore barriera naturale. Ciò spiega perché i legumi hanno, in linea generale, un IG più basso dei cereali.

Altro fattore che può modificare l’IG è la maturazione. Questo è particolarmente vero per la banana, che ha un IG piuttosto basso (40) quando è acerba mentre al termine della maturazione ha un IG molto più alto (65).  Questo perché l’amido contenuto in essa, man mano che il frutto matura, subisce un processo di trasformazione che lo porta ad avere un maggior contenuto di zuccheri semplici. Meno calzante, invece, è l’esempio per altri tipi di frutta, come mele e pere, che hanno un minore contenuto di amido e quindi subiscono meno variazioni dell’IG.

Ancora: l’invecchiamento. Le patate conservate per diversi mesi, per via della progressiva trasformazione dell’amido, hanno un IG maggiore rispetto alla patate novelle appena raccolte. Anche la grandezza dei grani è determinante per l’IG. Secondo uno studio effettuato nel 1988 da Brand Miller [5] l’IG del frumento, del mais e dell’avena aumenta considerevolmente con la maggiore raffinazione dei grani. Più il chicco è integro minore è l’IG. Più è farinoso maggiore è l’IG.
L’IG è, quindi, un dato pratico molto importante non solo per differenziare i diversi zuccheri di un alimento, ma anche per valutare la risposta glicemica post-prandiale, sulla base di diverse abitudini alimentari tra le varie popolazioni, che tiene conto non solo delle caratteristiche di composizione, ma anche di produzione e di cottura dei cibi nelle diverse realtà regionali.

Ma un dato altrettanto importante per determinare l’aumento della glicemia dopo un pasto è anche la quantità complessiva dei carboidrati assunti. Oggi si tende a prendere molto in considerazione anche il “carico glicemico” complessivo di un pasto, inteso come prodotto dell’IG di un cibo per il suo quantitativo [6]. Inoltre, quando si assumono più alimenti, va anche valutata, la risultante degli IG dei singoli alimenti del pasto, considerando che, all’aggiunta di grassi e proteine, l’IG del pasto complessivamente diminuisce perché la digestione di questi macronutrienti è più lenta e, quindi, i carboidrati totali presenti vengono assorbiti meno velocemente [7].
Eugenio Del Toma, rinomato dietologo e consulente scientifico, ritiene che i diabetici e gli obesi debbano imparare a <<fare “risparmiare” il lavoro al pancreas perché l’insulina, ormone indispensabile per il metabolismo, pone non pochi effetti collaterali, tra cui la maggiore facilità ad ingrassare, se viene secreta in eccesso>> [8].
Thomas Wolever, noto diabetologo americano, considera il concetto di IG <<valido e potenzialmente utile, ma anche piuttosto complesso>>. In un suo articolo [9] ribadisce l’importanza della qualità e della quantità dei carboidrati ma sottolinea anche come l’IG non è il solo, né il più importante criterio di valutazione di un alimento. Alcuni cibi a basso IG devono comunque essere usati con moderazione a causa del loro alto contenuto in grassi (cioccolata, formaggi,…) mentre alcuni cibi con alto IG possono rivelarsi delle buone scelte dietetiche perché hanno poche calorie, alto valore nutritivo e pochi grassi (esempio, cereali e legumi)

In conclusione, possiamo definire il concetto di IG di un pasto, come il risultato di numerosi parametri, dei quali bisogna assolutamente tenere conto nelle nostre scelte nutrizionali. Non vuole né riassumere, né sostituire altre informazioni, ma aggiungerne altre alle classiche tabelle che descrivono le caratteristiche dei cibi. Il segreto per un’alimentazione corretta risiede nel mangiare meno frequentemente e in misura ridotta quei cibi con alto IG e in quantità maggiore e più frequentemente quelli con basso IG, tenendo conto di tutto quanto già detto.
Gaetano Paparesta

tabella_glicemia1.gif

[1] Antonio C. Bossi. Indice glicemico: valore ed efficacia pratica.http://www.cardiometabolica.org
[2] Carlo Cannella e Giovanni Tomassi. Fondamenti di nutrizione umana. 1999. pag. 86
[3] Fattori di modifica dell’Indice Glicemico., montignac.com
[4] Gigliola Braga. La Zona italiana. Sperling & kupfer Editori. Milano, 2002. Pag. 70
[5] Janette C Brand-Miller et all. Glycemic index and obesity. American Journal of Clinical Nutrition, Vol. 76, No. 1, 281S-285S, July 2002
[6] Antonio C. Bossi. Indice glicemico: valore ed efficacia pratica.http://www.cardiometabolica.org
[7] L’indice glicemico. Alcuni alimenti particolari. progettodiabete.it
[8] Eugenio Del Toma. Perché è utile l’indice Glicemico. Salute suppl. de La Repubblica n. 439 del 3 marzo 2005: pag. 38
[9] Thomas M.S. Wolever. The glycemic Index: Flogging a Dead Horse? Diabetes Care, Volume 20, Number 3, March 1997, pp. 452-456

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